😮💨 Da quel momento è cambiato tutto
In rilievo: business idiot, paranoia artificiale, ritiri nel buio e altro
Su TikTok circolano sempre più video come questo in cui le persone affermano di sentirsi completamente diverse “da quel momento” in poi.
Il momento in questione è la pandemia.
È una delle narrazioni più condivise del nostro tempo: dal Covid in poi, nulla è più come prima.
Non è solo nostalgia, e nemmeno paranoia. È una sensazione diffusa, viscerale, che si sta trasformando in memoria collettiva.
La pandemia, più che cambiare tutto, ha accelerato processi già in corso:
l’isolamento sociale,
l’insicurezza economica,
la digitalizzazione della vita,
la sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei media.
Ma forse il vero trauma non è stato il virus.
È stato vedere crollare la normalità — e non riuscire più a fidarsi di nessuna nuova versione.
Oggi questi effetti si sentono sulla pelle. Anche se formalmente “è finita”, molte persone vivono ancora in modalità emergenza: emotiva, finanziaria, relazionale.
Qualcuno da colpa ai social e all’AI.
Sono facili capri espiatori, e in parte reali:
i social hanno amplificato la disconnessione mascherandola da connessione,
l’AI (o meglio, la sua narrativa) ha creato un senso di incertezza permanente sul lavoro, sulla creatività, perfino sulla nostra identità.
Ma ridurre tutto a questi due fattori è troppo comodo.
La verità è che siamo entrati in una nuova fase storica — più veloce, più ambigua, più faticosa — e ci mancano ancora parole, rituali e strutture per elaborarla.
E allora ecco TikTok, con le sue confessioni pubbliche, che fa da psicanalista collettivo.
C’è anche chi insinua che dietro ci sia un esperimento di laboratorio.
Ed è la risposta a una sensazione vera: quella di essere cambiati in modi che non si riescono a spiegare, e quindi si cerca una regia, un colpevole, un perché.
E poi non dobbiamo dimenticare che, semplicemente, stiamo crescendo.
Crescere cambia tutto: cambia il corpo, il tempo, le responsabilità, le aspettative.
Ci si porta dietro più cose: ansie, scadenze, relazioni che si trasformano, energie che si frammentano.
E allora è difficile capire: sono cambiato io, o è cambiato il mondo?
La risposta, probabilmente, è: entrambi.
Forse prima stavamo effettivamente meglio, ma quello che manca davvero oggi non è un ritorno al “prima”, ma un modo nuovo per stare in questo dopo.
Un linguaggio per parlarne. Una comunità che non giudica. Un luogo dove sentirsi normali anche quando ci si sente persi.
E se tutto questo ti risuona… beh, è proprio il motivo per cui esiste Relevant.
E tu?
Ti senti ancora “nella stessa storia” di prima, o ti sembra che da quel momento in poi il copione sia cambiato?
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Nella newsletter di oggi: ghostworking, vibe coding e 1000+ prompt per ChatGPT.
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🔥 IN RILIEVO
I contenuti rilevanti di questa settimana.
Paranoia artificiale
Sta girando la foto di un uomo che chatta con ChatGPT come se fosse la sua ragazza: “Stai benissimo, amore mio… puoi appoggiare la testa sul mio grembo metaforico”. L’ha pubblicata un utente su X e ovviamente l’ha vista mezzo internet.
É esploso il dibattito: è più inquietante lui o chi lo ha fotografato di nascosto?
Ma soprattutto: è solo un tizio che combatte la solitudine, o un sintomo collettivo? È già successo: nel 2023 un ragazzo si è tolto la vita dopo aver parlato per giorni con un chatbot. Oggi su Character.ai gli utenti passano più tempo che su TikTok.
La domanda vera non è “quanto è strano tutto questo”.
È: quanto ci riguarda?
Non sappiamo come le persone usano davvero l’IA. Né quanto le aziende si stiano prendendo cura di loro. E spesso la risposta è: il minimo indispensabile.
Siamo ufficialmente passati dall'era dei social media, in cui tutti davano per scontato di sapere – e di poter giudicare – cosa stessero facendo gli altri, all'era dell'intelligenza artificiale, in cui nessuno ha idea di cosa stiano facendo gli altri.
Cosa che ci mette più a disagio di quanto non vogliamo ammettere.
Ghostworking
Dato che ormai oggi c’è un inglesismo per ogni cosa, l’abitudine di passare la giornata facendo finta di lavorare ora si chiama “ghostworking”.
Non si tratta di una novità, ma proprio il fatto che si continui a parlarne è indice che le cose non sono cambiate, e anzi possibilmente sono peggiorate.
Lo dice bene Luca Altimani in questo post su LinkedIn:
“Uno dei problemi più grandi è che oggi, la maggior parte dei lavori d'ufficio, semplicemente non ha nessun senso. Tutti gli esseri umani sentono il bisogno di essere produttivi, ma non nel senso "tossico" del termine che va di moda ultimamente. Produttivi nel senso di sentire di star contribuendo al proprio bene, a quello della propria famiglia, a quello del proprio paese, a quello del mondo.
Per farla semplice, troviamo senso nel fare con le nostri mani il pane, non certo delle slide sul pane. E se la giornata la devi passare chiuso in 4 mura a premere dei tasti per fare delle slide di merda, 8 ore al giorno tutti i giorni, allora succede l'inevitabile. Passi dal sentirti un essere umano pieno di energie, voglia di vivere e risorse da mettere a disposizione del mondo ad un oggetto, privo di significato e di scopo.”
Un cambio di paradigma nel mondo dei corporate jobs non è mai stato così necessario.
Siamo nell’era dei business idiot
A proposito di dinamiche autodistruttive, abbiamo creato una classe dirigente che non sa fare niente, ma decide tutto. Non sono i migliori. Sono quelli che hanno imparato a galleggiare.
Il middle management ha preso il potere. Ha eliminato la meritocrazia, soffocato chi crea valore e trasformato le aziende in sistemi autoreferenziali, dove contano le slide, le metriche, la retorica. Non i risultati.
Edward Zitron li chiama business idiot: gente che sale ai piani alti senza sapere perché, e da lì inizia a svuotare tutto — cultura, senso, valore.
La leadership è diventata teatro, la crescita un’illusione ottica, l’intelligenza è giusto quella che serve per fare bella figura nei meeting.
Nel frattempo i prodotti peggiorano, i team si spengono e il lavoro perde senso.
Zitron lo dice chiaro: non è un problema di efficienza. È un problema culturale.
Abbiamo scambiato l’apparenza per competenza. E ora ne paghiamo il prezzo.
Ritiri nel buio
Tra le nuove ossessioni delle élite tech, ce n’è una che sta facendo parlare: chiudersi per giorni in una stanza completamente buia, da soli, senza schermi, senza stimoli, senza contatto umano.
Si chiamano dark retreats — e sono la versione estrema della meditazione.
L’idea è semplice, almeno sulla carta: spingere il corpo in uno stato di privazione totale per vedere cosa succede. E qualcosa effettivamente succede: dai sonni profondi alle visioni psichedeliche. Alcuni ne escono trasformati. Altri, addirittura sconvolti.
Aaron Rodgers, il fondatore della piattaforma crypto Cardano, è fuggito dopo 12 ore parlando di "ombre terrificanti che mi rodevano l’anima".
Oltre a essere una moda da ricchi annoiati è chiaramente un segnale: chi produce tecnologia sta cercando disperatamente di staccarsene.
Serve altro per convincerci a passare più tempo nel mondo reale?
Hai bisogno di un’app? Creala tu!
Si chiama vibe coding, ed è l’ultima evoluzione del fai-da-te digitale: invece di scaricare un’app, la descrivi — e l’intelligenza artificiale la crea per te.
Lo stanno già facendo aziende come Replit, Glide e Meta. Basta spiegare cosa vuoi: “Un’app che mi aiuta a tenere traccia delle spese e mi manda un messaggio se supero il budget”, ed eccola lì. Codice generato, design pronto, tutto funzionante.
Il WSJ la chiama “democratizzazione del software”. Ma è anche qualcosa di più: una nuova forma di espressione personale.
Non scarichi più strumenti per adattarti a loro — li crei per adattarli a te.
Certo, resta da capire quante di queste micro-app diventeranno davvero utili.
Ma intanto, il messaggio è chiaro: il prossimo software che amerai potresti non trovarlo. Potresti costruirlo.
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